La lotta agli abusi è una preoccupazione costante nella Chiesa, in particolare negli ultimi anni. Il tema è emerso anche nell’aula dov’è riunito il Sinodo e continua ad essere monitorato dai media. Ne parliamo con l’arcivescovo Filippo Iannone, Prefetto Dicastero per i Testi Legislativi, per approfondire alcuni aspetti riguardanti le procedure che vengono applicate.
Può dire a che punto siamo dal punto di vista delle leggi in vigore? Sono efficaci?
È certo questa una tematica al centro dell’attenzione della Chiesa tutta, come ripete continuamente il Papa, e quindi non poteva non entrare, in qualche modo, negli interventi dei membri del Sinodo. La normativa canonica per la repressione e la punizione dei delitti di abuso su minori e persone adulte vulnerabili è stata negli ultimi anni modificata, tenendo conto dell’esperienza accumulata negli anni trascorsi, dei vari suggerimenti venuti dalle Chiese locali e da persone impegnate a vari livelli nella repressione del fenomeno, e soprattutto dell’incontro dei Presidenti delle Conferenze Episcopali di tutto il mondo con i responsabili della Curia romana, voluto da Papa Francesco e tenutosi in Vaticano nel mese di febbraio del 2019. È stato rivisto il diritto penale canonico, è stato promulgato il nuovo motu proprio Vos estis lux mundi, che stabilisce “a livello universale le procedure volte a prevenire e contrastare questi crimini che tradiscono la fiducia dei fedeli”, sono state riviste le Norme seguite dal Dicastero per la Dottrina della Fede nel giudicare i delitti ad essa riservati. In tutti i testi normativi si mette maggiormente al centro della prospettiva il bene delle persone la cui dignità viene violata e la volontà di celebrare un “giusto” processo nel rispetto dei principi fondamentali dell’ordinamento giuridico. Tra l’altro è stato sancito l’obbligo di denuncia alle autorità ecclesiastiche da parte di sacerdoti e consacrati qualora vengano a conoscenza di possibili abusi. Riguardo all’efficacia delle Norme è difficile dare un giudizio globale, perché bisognerebbe conoscere tutti i dati inerenti la materia. In base alla mia personale esperienza direi di sì. In ogni caso vorrei ricordare le parole di Papa Francesco: “Anche se tanto già è stato fatto, dobbiamo continuare ad imparare dalle amare lezioni del passato, per guardare con speranza verso il futuro”.
Un sacerdote dimesso dallo stato clericale è scomunicato?
No! La tradizione canonica conosce due tipologie di pene applicabili a tutti i fedeli, chierici e laici: le censure e le pene espiatorie. Tra le pene espiatorie applicabili ad un chierico (diacono, sacerdote e vescovo) la più grave e anche perpetua è la dimissione dallo stato clericale. Si applica, come è facile dedurre, in presenza di reati di particolare gravità. Per dirlo in termini più semplici il sacerdote dimesso dallo stato clericale non è scomunicato, ma non potrà più esercitare il sacro ministero, mentre alle condizioni di tutti gli altri fedeli potrà ricevere i sacramenti.
Può spiegare come avviene l’eventuale remissione di una scomunica? Ci sono procedimenti rapidi per questo? Quali soggetti vengono coinvolti?
La scomunica, che la legge canonica annovera tra le censure, è la pena con la quale si priva il battezzato – che ha commesso un reato (tra questi: profanazione dell’eucarestia, eresia, scisma, aborto, violazione del segreto della confessione da parte del sacerdote) ed è contumace (cioè disobbediente) – di alcuni beni spirituali, fino a quando cessi il suo permanere in questo stato e sia assolto. I beni spirituali, o a questi annessi, dei quali la pena può privare, sono quelli necessari per la vita cristiana, e cioè principalmente i sacramenti. La scomunica ha una finalità strettamente “medicinale”, finalizzata cioè al recupero, alla cura spirituale della persona colpita, perché pentito possa di nuovo ricevere i beni di cui è stato privato (salus animarum suprema lex in Ecclesia – la salvezza delle anime è la legge suprema nella Chiesa). Di conseguenza, per ottenere la remissione, deve provare che tale finalità sia stata raggiunta. Non sono previsti termini di tempo predeterminati. Il requisito necessario, pertanto, è che il soggetto si sia veramente pentito del delitto e abbia dato adeguata riparazione allo scandalo e al danno provocato o almeno abbia seriamente promesso di realizzare tale riparazione. È ovvio che la valutazione di questa circostanza deve essere fatta dall’autorità dalla quale dipende la remissione della pena, in spirito pastorale, tenendo conto delle buone disposizioni del soggetto e dell’impatto sociale che potrebbe avere tale decisione.
Potrebbe spiegare la differenza tra la scomunica e quelle che vengono definite “pene espiatore”?
Oltre alle censure di cui abbiamo parlato, la tradizione canonica conosce e prevede un altro tipo di pene, chiamate espiatorie, le quali hanno per finalità specifica l’espiazione del delitto. Di conseguenza, la loro remissione non è solamente legata al pentimento o alla pertinacia del reo (cioè alla sua ostinazione), ma principalmente al personale sacrificio vissuto con finalità riparativa e di correzione. Esse comportano la privazione per un periodo di tempo stabilito, indeterminato o perpetuo di alcuni diritti di cui il soggetto godeva (per es. la proibizione di esercizio o la privazione di un ufficio o incarico ricoperto), senza però impedirgli l’accesso ai beni spirituali, in particolare ai sacramenti.
Nelle ultime settimane, diversi articoli di stampa hanno offerto varie interpretazioni riguardo le procedure canoniche relative ai delitti riservati. Può spiegare quali sono queste procedure e come vengono applicate?
Stiamo parlando di delitti che per la loro gravità in materia di fede o di morale sono giudicati esclusivamente dal Dicastero per la Dottrina della Fede. La procedura seguita dal Dicastero può essere di due tipi: quella di natura cosiddetta “amministrativa” o quella giudiziale. Nel caso del processo amministrativo, una volta concluso il procedimento con il Decreto penale extragiudiziale, il condannato ha la possibilità di impugnare il provvedimento ricorrendo al Collegio dei Ricorsi, appositamente costituito presso lo stesso Dicastero. Il decreto di questo Collegio è definitivo. Nel caso di un processo giudiziale penale invece, dopo aver concluso i diversi gradi di giudizio, la sentenza passa in giudicato (res iudicata), quindi diventa esecutiva. In entrambi i casi, la persona condannata può chiedere la restitutio in integrum (cioè il ripristino della sua condizione originaria) sempre al Dicastero per la Dottrina della Fede. È anche possibile chiedere una revisione in forma di grazia; in questo caso, la procedura ordinariamente è espletata dal Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica, ma può essere anche affidata ad altri Organismi. Dato il carattere riservato di questo tipo di comunicazioni, è la Segreteria di Stato che provvede al coordinamento delle varie istanze e all’invio delle eventuali decisioni per l’esecuzione delle disposizioni adottate.
di Andrea Tornielli – Fonte: Vatican News